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Archive for agosto 2012

800 gradi

No, il titolo non si riferisce alla temperatura che ho trovato in casa quella volta che sono uscita senza accendere l’aria condizionata (immaginatevi di entrare in un forno e avrete un’idea dell’atmosfera che mi ha accolto al rientro).

Un paio di settimane fa la copertina di LA Weekly, settimanale gratuito con tutti gli appuntamenti culturali e per il tempo libero, era dedicata alla pizza. All’interno, pagine e pagine dedicate alle migliori pizzerie della città. Una di quelle nella Top Ten è nel mio quartiere, quindi ho deciso di fare un salto e vedere come fosse questa pizza made in LA.

Innanzitutto va precisata una cosa: la mente dietro a questa pizzeria, che si chiama appunto “800° Degrees“, ha applicato il concetto di fast food alla pizza e ha declinato il tutto all’americana. All’ingresso si sta in fila e, come prima cosa, si decide quale base si vuole: margherita, bianca o marinara. Passo successivo: i toppings. Ogni ingrediente aggiuntivo costa un dollaro (tranne qualche eccezione, tipo il tartufo o il prosciutto di Parma che costano tre dollari) e se ne possono aggiungere a volontà. Io mi sono limitata a due: funghi e scamorza affumicata. Quando la nostra pizza è assemblata, si passa dalla cassa a pagare e il pizzaiolo la inforna. Tempo di cottura: 60 secondi (giuro!) Nell’attesa si va a prendere da bere (l’acqua, come in tutti i ristoranti e fast food americani, è gratis). Quando chiamano il nostro numero si ritira il piatto e si va alla ricerca di un tavolo libero. Alla fine, con meno di 10 dollari ho mangiato una buona pizza, che non aveva nulla da invidiare a una fatta in Italia. Non mi posso lamentare.

Mmh, pizzaaa…

Tra l’altro il posto è talmente popolare che c’è sempre la fila fin fuori dal locale. Questa era la situazione quando sono uscita:

Peggio che essere a un concerto rock

Ho visto di peggio solo alla gelateria “Diddy Riese“:

La fila inizia davanti al quarto albero da sinistra

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Los Angeles by bus

Foto: Wikipedia

Le città americane, con poche eccezioni (vedi New York), non sono famose per l’efficienza dei mezzi pubblici. L’americano medio ama la propria auto e la usa anche per andare dietro l’angolo, con conseguenze prevedibili su traffico e inquinamento, e gli autobus sono considerati mezzi di serie B.

Non avendo un’auto a disposizione, appena sono arrivata ho fatto l’europea e mi sono informata sulle linee che passano nella mia zona. Essendo a due passi dal campus della UCLA, il quartiere è molto ben servito, ma sono subito incappata in un problema: a Los Angeles non c’è un’unica azienda di trasporti, ce ne sono diverse, ognuna con i propri biglietti e abbonamenti, validi solo per le proprie linee. Nel caso si debbano usare linee di aziende diverse bisogna pagare un transfer oppure comprare un EZ pass, valido su tutte le linee dell’area metropolitana.

Il primo passo è stato quindi valutare quali linee avrei usato di più e quale tipo di abbonamento scegliere. Ho optato per il Metro 30-Day Pass ed è stato un ottimo investimento. All’inizio avevo pensato di pagare di volta in volta il biglietto, tanto costa solo $1,50. Peccato che siano $1,50 a tratta: se per andate dal punto A al punto B devo cambiare mezzo (cosa che succede regolarmente, viste le distanze enormi) devo pagare $3 dollari. A conti fatti, conviene l’abbonamento.

Il primo impatto con gli autobus di Los Angeles è stato avventuroso. Tanto per iniziare, non trovavo la fermata. L’avevo cercata su Google Maps e doveva essere lì, accidenti, ma non la trovavo. C’era quella per andare nella direzione opposta, ma non quella che serviva a me. Poi ho notato un palo, quasi completamente nascosto dai rami di un albero, ed eccola lì, in mezzo ai cespugli, accanto al Bel Air West Gate. Immaginatevi la sottoscritta che aspetta fra le frasche mentre mi sfrecciano davanti Porsche, Ferrari, Maserati e macchinoni vari.

Una volta salita sull’autobus, la prima cosa che ho notato (dopo l’escursione termica, perché l’aria condizionata è sempre al massimo) sono stati gli schermi che trasmettono vari programmi di infotainment a cura di Transit TV: previsioni meteo, gossip,quiz a premi, il tutto in inglese e spagnolo. All’inizio ho pensato “Che americanata”, ma avendo diverse ore di viaggio alle spalle, ammetto che quando si è imbottigliati nel traffico ogni distrazione è ben accetta.

Altro problema: la mia fermata si avvicinava e io non trovavo i pulsanti per prenotare la fermata. Attimi di panico nei quali ho immaginato di restare intrappolata sull’autobus fino al capolinea. Poi ho notato dei cavi gialli lungo i finestrini e un cartello con la spiegazione: “Tirare il cavo per prenotare la fermata“. In realtà più che tirare bisogna aggrapparsi, vista la forza necessaria, ma alla fine sono riuscita a scendere alla fermata giusta.

 

La cosa più ingegnosa di tutte, però, è il sistema per il trasporto delle biciclette. Ogni autobus ha una rastrelliera all’altezza del paraurti anteriore: invece di portare la bici a bordo la si carica prima di salire e la si recupera una volta scesi. Geniale.

Foto: LADOT Bike Blog

Ma una cosa farebbe impazzire il milanese medio: il metodo per la salita. Si usa solo la porta anteriore, chi ha la tessera la appoggia al lettore, altrimenti si infilano i dollari e le monetine nella macchinetta (che non dà resto, quindi bisogna avere la cifra esatta). E ovviamente si sta tutti in fila ad aspettare pazientemente il proprio turno. No, questa perdita di tempo sarebbe inconcepibile. Però così tutti pagano il biglietto.

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Nisei Week 2012

19 agosto, cerimonia di chiusura della 72esima Nisei Week, Little Tokyo. Da brava otaku non posso certo perdermela. Arrivo in 1st Street e mi trovo in mezzo a signore in yukata e signori in happi, tutti pronti per esibirsi nella danza Ondo. Fra tanti costumi tradizionali, però, spicca un gruppo di simpatici mattacchioni imparruccati:

Little Tokyo o Little Memphis?

Vengono presentati i vari gruppi, ognuno capitanato da una sensei, e poi si comincia, tutti in fila dietro alla coreografa ufficiale. Alcune canzoni sono suonate dal vivo, altre sono registrazioni, come quella che apre le danze, l’inno ufficiale delle Olimpiadi di Tokyo del 1964:

Nella pausa, come nella più classica delle feste di paese, vengono estratti i premi della lotteria (primo premio: due biglietti aerei per Tokyo più $2.000 in contanti) e poi via, si riparte!

Adesso capisco da dove arrivano i balletti di Pollon.

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Non ho ancora scritto della mia visita a San Francisco a fine luglio. Si è trattato del classico prendere due piccioni con una fava: oltre a fare la turista, ho approfittato dell’occasione per incontrare i responsabili della fondazione con la quale collabora l’agenzia in cui lavoro e fare due chiacchiere dal vivo, dopo mesi e mesi di corrispondenza via email.

Ho viaggiato con la Southwest Airlines. Un’amica statunitense l’ha definita la “RyanAir americana”, ma è molto meglio di RyanAir: innanzitutto si possono imbarcare due valige gratis, e già questo basterebbe a battere la compagnia irlandese su tutta la linea. I posti non sono assegnati ma l’imbarco procede in ordine di check-in, quindi prima salgono i passeggeri del gruppo A, poi quelli del gruppo B e nessuno fa a pugni per salire per primo. Ma questo forse è più un problema degli italiani che sono allergici alle file. I sedili hanno un sacco di spazio per le gambe e durante il volo (circa un’ora) vengono serviti bevande e snack. Okay, lo snack era una pacchetto di noccioline, ma apprezzo l’impegno. No, non mi pagano per fare pubblicità, ma se capitate in zona e vi serve un volo interno, ricordatevi di questa compagnia.

Ma torniamo a San Francisco. Città molto bella, decisamente più a misura d’uomo rispetto a Los Angeles. Unico inconveniente: i saliscendi continui e ripidissimi. Più di una volta ho pensato “Oddio, adesso inciampo, cado e rotolo giù fino al molo!” Per fortuna non è successo.

Pacific Heights

La prima zona che ho visitato è stata Pacific Heights, quartiere residenziale caratterizzato dalle classiche case vittoriane color pastello. Prima di rientrare in albergo ho fatto tappa al Japan Center per una cena a base di okonomiyaki:

Okonomiyaki / chicken teriyaki combo

Okonomiyaki + chicken teriyaki con insalata + tè caldo + mancia = $15. Senza parole.

Il giorno successivo, dopo la mattinata trascorsa in un ufficio enorme al decimo piano di un palazzo a Lower Nob Hill, mi sono avviata alla scoperta di Chinatown, per poi proseguire verso il Fisherman’s Wharf, dopo una piccola deviazione al Cable Car Museum e in Lombard Street per vedere il tratto di strada più tortuoso del mondo. E oltre ai leoni marini spaparanzati sulle chiatte, mi sono imbattuta in una visione familiare:

Mi sento un po’ a casa

La giornata si è conclusa con una pizza divina al Rose Pistola di North Beach, la Little Italy di San Francisco.

Terzo giorno: visita, obbligatoria, al Golden Gate, attraversato a piedi affrontando una ventazza micidiale. Architettura spettacolare, ma forse la cosa che mi è rimasta più impressa sono i telefoni di emergenza per le “consulenze anticrisi” rivolte agli aspiranti suicidi. Gulp. Superato il ponte ho preso il bus per Sausalito, cittadina sulla costa piena di negozietti di ogni tipo, un vero e proprio attentato al mio conto in banca. Acquisto preferito del giorno:

Say hello to Mr Cat

Ritorno in traghetto con vista su Alcatraz e passeggiata nel Financial District.

Il quarto giorno è iniziato con una visita al Civic Center, seguita da un’escursione nell’immenso Golden Gate Park, dove mi sono mandata ammalissimo facendo foto a rose, alberi e piante mai viste prima. All’uscita dal parco ho imboccato Haight Street, cuore del quartiere hippy di San Francisco, e prima di cena ho avuto il tempo per una deviazione verso Mission District e Castro.

Quinto giorno: dopo una mattinata passata a girovagare nei dintorni di Market Street è ora di tornare in albergo per recuperare lo zaino e avviarsi all’aeroporto. Sono stati cinque giorni intensi e ogni sera sono rientrata in hotel coi piedi doloranti, ma ne è valsa la pena!

PS Durante il volo di ritorno ho anche visto la faglia di Sant’Andrea:

Speriamo non si risvegli…

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5 agosto, domenica. Decido di andare in spiaggia. Invece di fermarmi a Santa Monica, cammino lungo la Ocean Front Walk verso sud, direzione Venice Beach. E quando arrivo, vengo accolta da uno spettacolo a dir poco inaspettato. Oltre ai soliti palestrati che mettono in mostra i muscoli, agli artisti di strada e a vari personaggi che promuovono marijuana terapeutica ripetendo “It’s legal!“, c’è un’area che sembra uscita da un film di Bollywood: carri coloratissimi, bancarelle a tema vegetarianismo e reincarnazione e un palco sul quale si esibiscono delle bravissime danzatrici indiane.

Sono in India? No, a Venice Beach

Danzatrici al “Festival of Chariots” di Venice Beach

Sono nel bel mezzo del “Festival of the Chariots“, organizzato ogni anno dal movimento Hare Krishna. Faccio un giro fra gli stand e mi fermo davanti a quello degli snack: del resto non ho ancora pranzato. Poi un’insegna attira la mia attenzione: “Free Feast“. Come “free”? Mi avvicino e sì, le persone sotto la tenda distribuiscono cibo gratis. Mi aspetto di trovare almeno una cassettina per le offerte, invece no, non si paga proprio nulla.

Non si dice mai di no a un pranzo gratis

Prendo un piatto e mi siedo sull’erba mentre una band, su un palco poco distante, allieta i presenti con una versione moderna del classico mantra “Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare“. Il pubblico apprezza e balla senza sosta.

Bancarelle al “Festival of Chariots” di Venice Beach

Con la pancia piena mi sposto verso la spiaggia, non prima di un’altra tappa davanti al palco principale, dove è in scena una rappresentazione de “Il Mago di Oz 50 anni dopo”, con Dorothy coi capelli bianchi e l’omino di latta con l’artrite. Sulla spiaggia leggo “Lettere contro la guerra” di Tiziano Terzani, libro perfettamente in tema.

La giornata di conclude con un magnifico tramonto sulla spiaggia. Posso rincasare soddisfatta.

Tramonto sulla spiaggia a Santa Monica

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Un mercoledì da leoni

Cosa sarebbe un viaggio in California senza un po’ di surf? E allora eccomi sulla spiaggia di Santa Monica pronta per la mia prima lezione. Si comincia con un po’ di tecnica sulla sabbia, per imparare come alzarsi sulla tavola da surf. Certo, sulla terraferma sembra tanto facile, ma in acqua è tutta un’altra cosa. La mia performance non si può certo definire brillante e penso di aver ingoiato qualche litro di acqua del Pacifico, ma alla fine delle due ore sono soddisfatta, anche se distrutta. Dettaglio: prima di iniziare, da bravi americani, mi fanno firmare un documento nel quale dichiaro di sapere che fare surf può essere pericoloso e che mi impegno a non denunciare il titolare. Oookay.

Prima di rientrare faccio tappa alla sala giochi del Santa Monica Pier per una partita a Street Fighter. Personaggio scelto, ovviamente, Chun Li. E guardate un po’ i punteggi:

Son soddisfazioni

Alla fine della giornata penso proprio di essermi meritata un premio, quindi mi fermo da Yummy Cupcakes per una red velvet cream cheese cupcake. Divina.

Red velvet cupcake
Foto: yummycupcakes.com

Arrivata a casa ho a malapena la forza di farmi la doccia e buttarmi sul letto. Questa mattina mi sveglio e mi fa male tutto, braccia, addominali, glutei, peggio che andare in palestra. E visto che le mie vacanze non sono vacanze se non porto a casa almeno un livido

Ouch.

Penso che farò un’altra lezione di surf. Prima però aspetto di non essere così dolorante.

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